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Cartolina postale da collezione

Che balotta

Che balotta

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“Balotta” non è solo un termine dello slang bolognese anni Novanta, ma una vera e propria chiave di lettura per comprendere come le generazioni costruiscono e tramandano la propria identità collettiva. In quei decenni, l’atto di “fare balotta” nasceva dai cortili e dai vicoli, spazi di libertà autogestita in cui il confine tra “noi” e “gli altri” si definiva tra una risata e un racconto improvvisato. Non si trattava di semplice chiacchiera: il rito della balotta era occasione di scambio culturale, in cui musiche, battute e idee circolavano liberamente, generando un senso di appartenenza che sfuggiva alle istituzioni ufficiali.

Per i giovani di allora, la balotta diventa pratica antropologica, un microcosmo in cui si sperimentavano stili di vita alternativi e si forgiava una memoria condivisa. Anziché celebrare eroi istituzionali, si esaltavano le storie di ogni giorno: il murales dipinto sotto le Due Torri, la radio pirata trasmessa da un garage, la poesia recitata a mezza voce tra un sorso di birra e l’altro. Questo raccontare collettivo scandiva il tempo sociale, legava le generazioni più giovani a quelle appena più grandi e gettava un ponte verso chi li avrebbe seguiti.

Oggi, quando qualcuno invoca la balotta, riemerge quel desiderio di comunità sfuggente e autentica, di un’esperienza culturale che non si compra né si ordina, ma si costruisce insieme. Analizzare oggi questo fenomeno significa ricostruire un pezzo di DNA urbano bolognese e riconoscere come il dialogo informale plasmi i modi di essere, di incontrarsi e di sentirsi parte di una stessa storia.

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