Anche no

Anche no

«Anche no» è il rifiuto lampo che, dal primo “duemila” in poi, ha invaso chat, bar e cucine condivise: due sole parole per spegnere sul nascere un’idea percepita come fuori luogo. Una nuova “avventura” con l’ex troppo invadente? «Anche no.» Invito a un karaoke sobri e improponibili? «Anche no!» – il tono ironico basta a far capire che la soglia della ragionevolezza è stata ampiamente superata.

L’espressione funziona perché coniuga fermezza e leggerezza: evita spiegazioni prolisse, lancia un sorriso che suggella il diniego e chiude la questione. Tra amiche diventa balsamo contro proposte sentimentali imbarazzanti («Uscirci di nuovo? Anche no»); fra amici segnala che l’impresa richiede troppa fatica o rischia risvolti ridicoli («Fare trasloco alle otto di domenica? Anche no»). “Anche” amplifica il “no”, suggerendo che l’ipotesi non vale neppure la discussione.

Antropologicamente, «anche no» è un marcatore di autonomia: definisce i confini personali in modo netto ma non aggressivo, proteggendo chi lo pronuncia dall’obbligo di giustificare il proprio rifiuto. Lo scarto minimo fra concessione (“anche sì”) e diniego (“anche no”) riflette la negoziazione continua del desiderio: decidere dove investire tempo, energie e dignità. In una cultura di sovrastimolo, la locuzione diventa strumento di igiene mentale, perché – detto una volta con la giusta intonazione – basta a far capire che su certe cose, davvero, «anche no».

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