Bona lè

Bona lè

“Bona lè” — due parole che a Bologna significano semplicemente «basta, finiamola qui» — era la chiusura netta di qualsiasi situazione: un colpo di forbice che troncava discussioni, corteggiamenti o partite infinite. Bastava un «Bona lè!» detto con la giusta inflessione perché il maldestro di turno arretrasse, proprio come accadeva quando la fanciulla-bene, al quarantasettesimo approccio, liquidava il pretendente senza appello.

Nelle compagnie giovanili l’espressione risuonava ovunque: nei corridoi di scuola, davanti al biliardino, fuori dai locali. «Bona lè, basta discussioni» o «Oh, bona lè: andiamo via!» erano modi rapidi per spegnere un’inutile insistenza e ristabilire la calma. La forza stava nella brevità: senza spiegazioni, si segnava la fine dell’argomento e si passava oltre.

Antropologicamente, “bona lè” funzionava da valvola di regolazione del tempo sociale: un confine linguistico che proteggeva lo spazio personale e quello del gruppo. In un dialetto ricco d’ironia e di giri di parole, quel lampo di sintesi restituiva equilibrio, impediva l’escalation dei conflitti e sanciva il diritto collettivo di fermarsi. Così, mentre chiudeva un momento, la locuzione apriva la possibilità di ricominciare altrove — con energie rinnovate e, soprattutto, con il consenso tacito di tutti.

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