“Strazzer” — verbo secco e tagliente che nel parlato bolognese anni Novanta significava “rompere le scatole” — bastava da solo a far calare il silenzio. Un «Oh cinno, brìsa stràzzer i marón!» (“non rompere i "maroni”) era sufficiente per ricondurre all’ordine il ragazzino irrequieto o l’amico troppo insistente: brìsa rafforzava il divieto, i marón evocavano in maniera colorita la pazienza ormai allo stremo.
Coniugazioni brevi sostenevano lo stesso intento: l’imperativo «Brisa stràzzer!» troncava sul nascere le storie ridondanti, mentre il commento in terza persona segnalava al gruppo che qualcuno stava varcando la soglia di tolleranza. Queste formule riecheggiavano in ambienti familiari quanto in quelli extrafamiliari, dove l’equilibrio fra confidenza e invadenza era regolato proprio da parole-limite di questo genere.
Antropologicamente, “strazzer” operava come dispositivo di autotutela collettiva: consentiva di proteggere lo spazio condiviso dall’eccesso di parole o gesti, ristabilendo in un attimo la gerarchia di voce senza scivolare nell’insulto pesante. Pronunciarlo voleva dire rivendicare il diritto al quieto vivere; incassarlo significava riconoscere di aver superato il confine. Tutto restava però dentro un perimetro ironico che preservava la complicità: la balotta rimaneva un luogo di libertà e di ascolto reciproco, dove anche un richiamo ruvido serviva, in fondo, a far funzionare meglio la convivenza.