Che lesso

Che lesso

“Lesso” era l’etichetta che la Bologna anni Novanta appiccicava a chi non capiva al volo nemmeno gli inviti più espliciti. «Lui lì è un lesso!» sbottava la fanciulla sagace, ricordando a tutti come, la sera prima, il giovane in questione fosse rimasto impassibile dinanzi a tacchi vertiginosi e autoreggenti, ignorando segnali che avrebbero svegliato chiunque. L’immagine è culinaria: carne bollita, già cotta, priva di verve – così la mente (e la reazione) del “lesso”, molle e tardiva nel rispondere.

Il termine, però, non colpiva soltanto chi era lento a capire: “lesso” era soprattutto chi non ce la faceva proprio, un mollo fino al midollo. L’amico che crolla sul divano appena scocca mezzanotte, il collega che si sfila da ogni iniziativa con un «fà te, io passo», il compagno che rinuncia alla minima avventura per pura inerzia: tutti finiscono sotto la stessa definizione di carne bollita e senza energia. «Non fare il lesso, muoviti!» diventava allora un invito a tirare fuori vitalità prima che la serata si spenga.

Antropologicamente, “lesso” fungeva da specchio sociale: segnalava i confini della prontezza e dello slancio richiesti per stare nella balotta, dove cogliere mezze parole e avere impulso d’azione era parte del gioco. Chi veniva marchiato così imparava – o cercava di imparare – a reagire più in fretta; chi lo pronunciava riaffermava la vitalità condivisa come valore collettivo. In sostanza, una parola che svelava come la vivacità, a Bologna, fosse considerata ingrediente imprescindibile della buona compagnia.

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