“Piomba” era la parola con cui la Bologna degli anni Novanta etichettava ogni forma di torpore profondo: da quello causato dai cocktail di fine serata al letargo che assaliva dopo un pranzo troppo carico di ragù. L’esclamazione «Che piomba!» bastava a dipingere la scena di un amico accasciato sul divano con lo sguardo fisso, mentre «mi è venuta una piomba devastante» ammetteva la resa totale al sonno chimico o digestivo. Allo stesso modo, chi rincasava stravolto dopo un turno infinito in fabbrica confessava: «Ragazzi, sono in piomba completa».
La locuzione si modulava con creatività: “gran piomba” per gli eccessi da weekend universitario, “piomba post-pranzo” per spiegare l’improvvisa immobilità del dopo mensa, “piomba da turno” per giustificare il silenzio di chi non reggeva più la conversazione. Pur usata in tono ironico, portava con sé un giudizio implicito: la piomba segnalava immobilità, perdita di controllo e nessuna voglia di partecipare alla vita di balotta finché il corpo non si fosse ripreso.
Antropologicamente, “piomba” fungeva da termometro collettivo dello sfinimento: indicava a tutti quando rinunciare a coinvolgere l’amico intorpidito e spostare altrove l’energia del gruppo. Pronunciare la parola significava riconoscere che ogni organismo ha un limite; accettarla voleva dire affidarsi alla solidarietà di chi capiva che, prima o poi, la piomba arriva per chiunque. Così il termine riassumeva una pedagogia tacita della misura, ricordando che l’euforia condivisa ha senso solo se lascia spazio, il giorno dopo, a risvegli meno traumatici.