«Oh, regaz!» è il saluto che rimbalza sotto i portici di Bologna appena la balotta si raduna: una sola vocale tagliata, la g ancora dura, e il gruppo si ritrova compatto senza bisogno di formalità. Nato dalla contrazione dialettale di “ragazzi”, il termine ha trasformato la parola-chiave dell’amicizia in un colpo di voce rapido ed elastico. «Bella, regaz, siete a posto?» sostituisce l’intero rituale d’accoglienza, annuncia complicità e mette subito tutti sullo stesso livello.
Il termine è neutro sul piano del genere: con «regaz» si chiama all’appello chiunque faccia parte della compagnia, maschi o femmine. L’espressione vive di piccole variazioni: gridata a distanza per segnalare la propria presenza («Regaaaz!» con la vocale tirata), sussurrata al telefono («Regaz, dove siete?»), digitata nei messaggi in caps lock o minuscolo indifferente. Nel lessico quotidiano vale come richiamo d’attenzione, preludio a una proposta o semplice test di connessione fra compagni di corso, colleghi di turno, comitive notturne.
Antropologicamente, “regaz” funziona da pass-partout relazionale: pronunciarlo significa riconoscersi parte di un cerchio, ricorrere a un codice che accorcia le distanze e sospende le gerarchie. La parola installa immediatamente un clima informale, indicando al nuovo arrivato che qui si gioca senza barriere. Così, a Bologna, bastano quelle cinque lettere per attivare rete e reciprocità, dimostrando che il vero cemento della città è ancora una volta la lingua – con le sue contrazioni affettuose e la promessa implicita di un «ci siamo, regaz» sempre pronto a ricompattare la compagnia.