Che intappo c'hai?!

Che intappo c'hai?!

“Intappo” era più di un semplice modo per dire “outfit”: era un atto performativo, un gesto di auto-rappresentazione collettiva che trasformava ogni festa sotto le Due Torri in un laboratorio di identità condivisa. Non contava tanto il capo in sé, quanto il modo in cui veniva “agghindato”: una Giacca vintage anni ’70, stivaletti in pelle con zip lasciata aperta, foulard annodato con naturale disinvoltura. L’esclamazione “Che intappo!” non sottolineava la singola scelta estetica, ma riconosceva chi, con ironia e creatività, era riuscito a tessere un narrativo di appartenenza, un codice non verbale capace di sancire la propria posizione in un gruppo.

Dietro questa pratica si nascondeva un’esigenza antropologica: usare il corpo come testo, farne veicolo di memorie e desideri collettivi. L’intappo richiamava revival e kitsch, ma soprattutto indicava la capacità di rievocare modelli culturali lontani — dal glam rock al funk — per ridefinirli in chiave urbana. Nella Bologna degli anni Novanta, indossare e “portare” un intappo significava partecipare a un rito di inclusione e distinzione sociale, in cui ogni dettaglio diventava segno di conversazione, di complicità e di appartenenza a una sottocultura ribelle e festosa.

Oggi riscoprire l’intappo vuol dire riaprire un capitolo di storia sociale bolognese, restituire voce a un linguaggio corporeo che sovvertiva le regole del buon gusto e dell’abbigliamento quotidiano. Analizzarne l’uso significa ricostruire come, attraverso un semplice “Che intappo!”, si negoziassero confini di classe, gusti musicali e appartenenze generazionali, delineando uno spazio di libertà creativa in cui il sé individuale si costruiva nel confronto e nella condivisione.

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