“Farsi il viaggio” era la formula con cui la Bologna anni Novanta bollava chi assumeva atteggiamenti da prima donna: bastava un «Si fa un gran viaggio!» per liquidare, con una punta di ironia, la ragazza che snobbava il solito corteggiatore o l’amico appena entrato in disco con passo da star. L’espressione, più pungente che offensiva, sottintendeva un eccesso di autostima e serviva spesso a lenire la delusione di chi aveva appena incassato un due di picche.
Nel parlato quotidiano la locuzione si modulava a piacere: «Oh, non farti il viaggio!» era il richiamo ad abbassare le penne, mentre la variante collettiva «Oh regaz, non facciamoci il viaggio» smorzava sul nascere l’entusiasmo esagerato di gruppo. Il tono restava giocoso: l’intento non era insultare, ma riportare tutti con i piedi per terra, sgonfiando pose da fighetto o vanterie su ricchezza, talento, fascino.
Antropologicamente, “farsi il viaggio” funzionava da valvola anticrescita dell’ego: la balotta usava la frase per regolare gerarchie e proteggere la coesione, ricordando che l’identità collettiva valeva più del singolo che si montava la testa. Chi veniva “accusato” di farsi il viaggio era invitato a riconnettersi al gruppo; chi pronunciava il richiamo rivendicava il diritto di mantenere la conversazione su un piano di modestia condivisa. Così la locuzione, dietro una risata, sorvegliava l’equilibrio fra autoaffermazione e appartenenza.