“Guzzare” era il verbo dai due significati dello slang bolognese: in certi contesti valeva vantarsi di un rapporto sessuale («L’ho guzzata, regaz!»), in altri serviva a denunciare un furto lampo («Mi hanno guzzato la bici!»). La stessa parola, cambiando scenario, passava dalla spavalderia di chi raccontava conquiste al bar alla rabbia di chi scopriva il lucchetto segato nel parcheggio.
L’ambivalenza dipendeva dal tono. Pronunciato a bassa voce tra amici, “guzzare” ammiccava a una sessualità ostentata, ruvida e ridotta a una sola sillaba; gridato in strada, diventava esclamazione di sorpresa e indignazione per il raggiro subito. Il participio si prestava a entrambe le sfumature: «È stata una guzzata epica» per celebrare la notte brava, oppure «Mi hanno guzzato lo zaino!» per segnalare la sottrazione improvvisa.
Antropologicamente, il verbo mostrava due lati della stessa medaglia: da un lato il desiderio di auto-affermazione maschile, dall’altro la vulnerabilità di chi vive la città e può restare a secco di motorino o bici in un attimo. Pronunciarlo in chiave erotica rafforzava gerarchie di prestigio dentro la balotta; usarlo per un furto creava immediata empatia nel gruppo, che si mobilitava con battute e solidarietà. Così, “guzzare” riassumeva in una parola il pendolo tra conquista e perdita, e ricordava che nella vita notturna bolognese si può passare in un lampo dal vanto alla sorpresa amara.