Mi sto ingubbiando!

Mi sto ingubbiando!

«Scusa amore, mi ero ingubbiato sul divano…» è la giustificazione di rito quando il sonno improvviso cancella l’orologio e manda in tilt il programma serale. Gubbiare – e la sua forma riflessiva ingubbiarsi – designano il momento in cui gli occhi si chiudono senza preavviso: la palpebra cede, la testa scivola di lato, il film resta in pausa. Non è un “andare a letto” formale; è un crollo morbido che coglie a metà della serie, sul treno, durante lo studio prima dell’esame.

Il verbo vive di declinazioni spicce: «Vado a gubbiare» annuncia il ritiro volontario quando la stanchezza supera la voglia di tirare tardi; «Mi sono già ingubbiato» spiega perché i messaggi notturni siano rimasti senza risposta. Nei gruppi di amici la battuta gira come promemoria d’umana debolezza: «Non ingubbiarti adesso, mancano dieci minuti alla fine!».

Antropologicamente, “gubbiare” registra l’altra faccia dell’iperattività cittadina: ricorda che il corpo, prima o poi, pretende uno stacco secco. Usare il verbo significa normalizzare il cedimento, trasformare il piccolo blackout domestico in un fatto sociale condiviso. In famiglia e in balotta, dichiararsi “ingubbiato” non è segno di pigrizia: è ammettere che, nella routine bolognese fatta di chiacchiere lunghe e sere dense, il sonno può calare di colpo – e nessuno potrà negargli il suo diritto di precedenza.

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