Oh, impaluga

Oh, impaluga

“Impalugare” era il modo bolognese di descrivere l’effetto-colla dei cibi troppo asciutti: un morso di merendina senza crema e, all’istante, la bocca si trasformava in argilla. «Sto panino mi impaluga da morire!» era il lamento tipico del ragazzo che, tronfio del nuovo snack estratto dallo zaino, si ritrovava invece con lingua e palato appiccicati e un bisogno urgente di “liquido amalgamante”. Bastava una fetta di torta sfornata senza sciroppo o la polenta riscaldata la sera prima perché scattasse l’ammonimento: «Occhio, questa impaluga di brutto».

Chi subiva il fenomeno si definiva semplicemente impalugato («Sono impalugato, dammi da bere!»). Bastavano poche sillabe per dipingere la scena: mascelle che lavorano a vuoto, deglutizione faticosa, occhi che frugano in cerca di una bottiglietta d’acqua o di un sorso di bibita. L’espressione non demonizzava il cibo: serviva piuttosto a marcare quel momento in cui ci si rende conto che “manca qualcosa di umido” e l’unica via d’uscita è idratarsi al più presto.

Antropologicamente, “impaluga” ricordava alla balotta che la convivialità passa anche dai piccoli disagi condivisi—la secchezza improvvisa di un biscotto, il riso strozzato dalle risate—e che il soccorso reciproco (un sorso d’acqua offerto, una battuta liberatoria) fa parte del gioco. In una cucina tradizionalmente ricca di sughi e brodi, l’effetto impaluga diventava misura di quanto la mancanza di umidità potesse trasformare un gesto quotidiano in momento corale di solidarietà e ironia.

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