Stai sbarellando?

Stai sbarellando?

“Sbarellare” era il verbo che, nella Bologna anni Novanta, copriva l’intero spettro dell’“andare fuori di testa”. In senso negativo bollava chi perdeva completamente il controllo – «Lui lì è sbarellato, non lo tieni più!» – alludendo a scatti d’ira, gesti sconsiderati o veri e propri crolli dopo troppi drink. Ma lo stesso verbo virava al positivo quando descriveva l’euforia: «Quel vino mi fa sbarellare!» significava lasciarsi travolgere dal piacere, dalla risata senza filtri o dall’esaltazione di un concerto ad alto volume.

L’elasticità semantica era tutto: bastava cambiare intonazione per passare dal «Sto sbarellando!» (ansia, stress, caos) al «Sto sbarellando!» (divertimento, estasi). La forma riflessiva compariva solo in confidenze private – «Ieri ho sbarellato di brutto…» – mentre l’imperativo «Non sbarellare!» fungeva da salvagente lanciato all’amico sull’orlo di una reazione sproporzionata. In ogni uso, però, la parola restava iperbolica, più pittoresca che clinica: serviva a enfatizzare uno stato emotivo estremo senza necessariamente rimandare a patologie reali.

Antropologicamente, “sbarellare” segnava la soglia fra controllo e sregolatezza condivisa: era un semaforo linguistico che permetteva alla balotta di capire quando l’intensità di una serata stava passando dal “memorabile” al “rischioso”. Pronunciarlo significava mettere un’etichetta rapida al proprio o altrui surplus emotivo; incassarlo, riconoscere che si era arrivati al punto in cui le redini rischiavano di sfuggire. Così il verbo, nella sua ambivalenza, insegnava a misurare l’onda dell’entusiasmo senza negare la possibilità – talvolta necessaria – di lasciarsene travolgere.

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