Vedi bèn di darti una mossa

Vedi bèn di darti una mossa

«Vedi ben di darti una mossa» era la frustata verbale che, a Bologna, interrompeva ogni lentezza domestica. La mattina, mentre la sveglia rintoccava invano, bastava la voce di mamma dietro la porta: «Sù, vedi ben di darti una mossa che il pullman non aspetta!». Il rafforzativo ben – suono secco, perentorio – trasformava l’invito in comando: non un semplice “dai, muoviti”, ma un «faresti proprio bene a farlo subito».

Lo stesso richiamo riecheggiava all’ora di pranzo: «Vedi ben di darti una mossa, che la pasta si fredda». In famiglia segnava il passaggio tra i ritmi comodi dei figli e le scadenze puntuali della cucina o della campanella scolastica. Fra amici, invece, entrava in scena quando qualcuno impiegava secoli a cambiarsi per uscire: «Dài, vedi ben di darti una mossa o facciamo notte», con la combinazione di affetto e impazienza tipica delle balotte che attendono il ritardatario cronico.

Antropologicamente, la formula fungeva da sveglia collettiva: ricordava che, al di là degli entusiasmi e delle chiacchiere, c’è un tempo condiviso da rispettare. Chi la riceveva sapeva che il margine di tolleranza era finito; chi la pronunciava rivendicava il diritto di far scorrere la giornata senza restare in ostaggio dell’indecisione altrui. E così, nella lentezza bonaria della città, «vedi ben di darti una mossa» restava un’ancora di pragmatismo: poche parole, tono deciso, e il motore della quotidianità ripartiva.

Torna indietro