Che cartola

Che cartola

“Cartola” nella Bologna degli anni Novanta non era un semplice complimento, ma indicava chi possedeva quel mix di presenza, sicurezza e stile capace di catturare immediatamente l’attenzione. Quando un giovane si specchiava con la sua nuova camicia firmata e sbottava “Vestito così ho una gran càrtola!”, esprimeva più che soddisfazione estetica: rivendicava il possesso di un’identità forte, fatta di gestualità misurate, sguardo sicuro e cura dell’immagine personale .

A livello sociale, “avere la cartola” significava muoversi nei locali e nelle piazze con un’aura quasi scenografica. Non importava solo il capo d’abbigliamento, ma il modo di portarlo: dal passo deciso al sorriso pronto in discoteca, ogni elemento contribuiva a definire un ruolo di protagonista nelle serate bolognesi. In questo senso, la cartola funzionava come attestato di status: non chi ostentava ricchezza, ma chi sapeva armonizzare apparenza e atteggiamento, conquistando consenso e ammirazione .

Antropologicamente, studiare la “cartola” significa cogliere come un’intera generazione abbia trasformato l’abbigliamento e il comportamento in strumenti di auto-rappresentazione collettiva. Essere una cartola non significava solo abito o accessorio, ma grammatica di posizionamento sociale: chi la possedeva narrava una storia di aspirazioni, reti di amicizie e appartenenze a sottoculture urbane, tessendo relazioni invisibili tra coetanei e definendo i confini di un’identità condivisa. In questo modo, il termine custodisce la traccia di un’epoca in cui stile e carisma diventavano sinonimi di autenticità e valore relazionale.

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