“Intortare” era il verbo preferito del giovane logorroico bolognese quando scendeva in campo per conquistare: conversazione a mitraglia, complimenti calibrati, aneddoti improbabili – tutto pur di persuadere la fanciulla di turno. «Sto cercando di intortarla» significava che la serata si era trasformata in una maratona di parole con l’evidente intento di ottenere un favore romantico o sessuale. Il discorso, l’“intorto”, diventava un impasto denso di ironia, citazioni e promesse, pensato per sciogliere le resistenze con il calore delle chiacchiere.
La parola, però, cambiava colore a seconda del contesto: lo stesso “intortare” poteva indicare un raggiro vero e proprio. «Mi hanno intortato e ho firmato senza leggere» segnalava un inganno leggero, una truffa mascherata da ragionamento convincente. In entrambi i casi l’azione puntava a piegare la volontà altrui; il tono – scherzoso nell’abbordaggio, risentito nella fregatura – definiva se l’intorto fosse seduzione o raggiro. Da qui l’imperativo difensivo: «Non mi intortare!», usato per bloccare sul nascere chi tentava di girare i fatti a proprio vantaggio.
Antropologicamente, “intortare” rivelava l’importanza del discorso come strumento di potere nelle relazioni giovanili: chi dominava la parola cercava di orientare desideri, scelte e perfino l’autostima dell’interlocutore. Il verbo metteva in luce una dinamica di gioco – talvolta malizioso, talvolta scorretta – in cui persuasione e manipolazione condividevano lo stesso terreno. Così la balotta imparava a riconoscere l’intorto, a smontarlo o a lasciarsi sedurre, ricordando che nelle trattative del cuore (e non solo) la lingua poteva essere il più dolce degli inviti o il più lucido degli inganni.