“Balotta” nella Bologna dei primi anni Novanta era molto più di un semplice gruppo di amici: era l’unità minima di socialità in cui si sperimentava il senso di comunità e di appartenenza. Invitare qualcuno a “fare balotta” significava tessere reti informali di conversazione e complicità, aprendo spazi di relazione lontani dalle dinamiche familiari o scolastiche. L’espressione “frequento la mia balotta” non indicava solo il quartetto di sempre, ma una piccola cerchia in cui condividere sogni, progetti e quella leggerezza fatta di abitudini, battute e confessioni.
Partecipare a una balotta voleva dire acquisire un’identità collettiva, definita dal lessico interno e dai piccoli rituali di incontro – gli appuntamenti in un punto preciso del quartiere, le serate in gruppo in discoteca, i weekend al mare sulla riviera romagnola – che permettevano di superare le divisioni di età e di luogo. Far balotta in vacanza con un nuovo incontro era un atto di apertura, un rito di passaggio che trasformava lo sconosciuto in compagno di avventure e rendeva ogni gruppo un microcosmo di fiducia e simpatia .
Antropologicamente, la balotta incarnava un rito collettivo di costruzione dell’identità: era nel fluire libero delle parole, nello scambio di storie che si definivano valori condivisi, si esploravano nuove appartenenze e si negoziavano ruoli sociali. Osservare la pratica del “fare balotta” equivale a leggere una micro-società fatta di convenzioni informali, in cui ogni incontro assolveva a funzioni di apprendistato culturale e consolidamento della coesione di gruppo.