“Bazza” nella Bologna degli anni Novanta era molto più di un semplice “trucco” per evitare la fila: incarnava la capacità di mettere a frutto reti di relazioni e favori reciproci, trasformando ogni conoscenza tattica in capitale sociale. Quando qualcuno diceva “stasera ho le bazze per entrare!”, non stava solo vantandosi di un passaggio privilegiato oltre la porta del locale, ma dichiarava il proprio potere d’intermediazione nel tessuto urbano .
L’idea di “gran bazza” si estendeva anche agli acquisti: un’amicizia ben coltivata con il gestore di un negozio poteva tradursi in uno sconto consistente, e il commento “costa poco, è una gran bazza” racchiudeva tanto l’astuzia del compratore quanto la fiducia generata dal legame sociale . L’ironia non mancava: usare “bazza” per marcare la frustrazione — “che bazza dover restare a casa coi parenti!” — era gesto metalinguistico che rimandava all’idea opposta di privilegio negato .
Sul piano antropologico, la “bazza” svela come una generazione abbia saputo negoziare il proprio spazio nella città usando la micro-politica delle relazioni quotidiane: ogni ingresso saltato, ogni sconto ottenuto, delineava un rituale di scambio simbolico, un modo per affermare la propria appartenenza e l’abilità a orientarsi in mondi regolati da norme non scritte. In questo senso, studiare la “bazza” significa ricostruire un’economia affettiva in cui il favore gratuito si misura alla stregua del denaro, tracciando i contorni di un paesaggio sociale fatto di fiducia, reciprocità e attitudini di comunità.