“Essere in cassa” era lo stato estremo che, nella Bologna anni Novanta, definiva chi aveva esagerato con l’alcol fino a ridursi a un semicomatoso incapace di intendere e di volere. Il day-after iniziava con l’auto-denuncia: «Ieri sera mi sono preso una gran cassa!», frase che mescolava autoironia e vergogna, segnalando di aver oltrepassato ogni soglia di tenuta fisica.
L’espressione girava fra amici all’uscita dalle discoteche o nelle cucine che ospitavano feste improvvisate: «Occhio che dopo tre bocce vai in cassa diretta». In alternativa si parlava di “cariola”, l’immagine di qualcuno da caricare su una carriola perché non reggeva più le gambe. In entrambi i casi il giudizio era implicito: chi finiva in cassa perdeva punti nella scala del prestigio e diventava bersaglio di risate e racconti taglienti.
Antropologicamente, «essere in cassa» funzionava da cartello di avvertimento collettivo: indicava il confine non scritto che separava la sregolatezza festosa dall’autolesionismo. Chi lo oltrepassava veniva sì soccorso dagli amici, ma al prezzo di una narrazione alle sue spalle che lo collocava – almeno per un po’ – al fondo della gerarchia di gruppo. Il termine, insomma, era il promemoria linguistico di come la balotta gestisse rischio e disciplina: un’ironia dura che proteggeva la comunità insegnando, a modo suo, le regole della misura.