“Fanga” era il vocabolo d’ordinanza per rendere onore a una scarpa che si faceva notare per linea e freschezza. Il giovane bolognese, di norma poco incline all’ostentazione, si limitava a un sobrio: «Ho comprato una gran fanga», lasciando intendere che il nuovo paio superava lo standard quotidiano. Il complimento reciproco non tardava: «Vecchio, hai una gran fanga!» condensava approvazione e un filo d’invidia, senza scivolare nell’esagerazione.
Il termine funzionava al singolare e al plurale («fanghe nuove»), sempre con la stessa sfumatura di apprezzamento asciutto. Bastava cambiare tono per passare dal racconto d’acquisto all’enfatica celebrazione dell’outfit: che fossero sneakers fiammanti o un mocassino lucidato a festa, la parola “fanga” consacrava il passo appena più sicuro di chi la indossava.
Antropologicamente, “fanga” rifletteva la cultura dell’eleganza non ostentata tipica della balotta bolognese: riconosceva il valore del dettaglio senza bisogno di enumerare marchi o cifre. Pronunciarla significava stabilire un patto di gusto condiviso; riceverla, sentirsi parte di un’estetica urbana sobria ma attenta, dove la moda si misurava a colpo d’occhio – e la qualità si lasciava indovinare più che spiegare.