“Dàgliela su” — formula asciutta che a Bologna significa «smettila, lasciaci stare» — era il comando che chiudeva in fretta situazioni diventate improduttive. Bastava un «Oh, dàgliela su!» per disinnescare l’amico che insisteva con l’ennesimo argomento o per troncare un corteggiamento senza speranza. Allo stesso modo, chi ammetteva la propria resa diceva: «Ho provato a rimorchiarla per un po’, ma alla fine gliel’ho data su», riconoscendo di aver mollato il colpo e voltato pagina.
La locuzione funzionava in qualunque contesto di insistenza: dal dibattito acceso fuori dal bar alla fila interminabile davanti al locale. In versione collettiva — «Diamogliela su e andiamo altrove» — diventava invito a un abbandono strategico, quasi sempre accompagnato da un’alzata di spalle di chi accetta che certe porte restino chiuse. Pur energica, la frase non era offensiva: più che rimproverare, indicava con decisione che il tempo dedicato a quella causa era scaduto.
Antropologicamente, “dagliela su” rifletteva il pragmatismo delle balotte bolognesi: segnava il momento in cui conveniva risparmiare energie per altre avventure, proteggendo il gruppo dall’accanimento sterile. Pronunciarla equivaleva a tracciare un confine di buon senso; incassarla significava riconoscere la necessità del passo indietro. In questo modo, la formula custodiva una piccola disciplina condivisa: il diritto — a volte perfino il dovere — di lasciar perdere, per tornare a muoversi insieme con leggerezza.