Che bulbo che ho messo su

Che bulbo che ho messo su

“Bulbo” nella Bologna degli anni ’90 non indicava solo la chioma, ma il modo in cui i capelli prendevano vita e comunicavano appartenenza: un’acconciatura scomposta dal vento o modellata con cura parlava di chi eri o a quale scena musicale o sociale appartenessi . Quando un ragazzo osservava l’amico con la chioma spettinata e commentava “Ma che bulbo c’hai!?”, riconosceva la forza espressiva di un gesto estetico spontaneo, capace di trasformare un dettaglio quotidiano in marchio di ribellione leggera.

Più che una semplice condizione posticcia, il “bulbo” era metafora di cura e performance: chi usava gel e phon raccontava di prove di stile nei backstage delle radio pirata o nei garage trasformati in studi improvvisati, mentre chi sfoggiava ciocche al vento rivendicava un’autenticità disinvolta, frutto di passeggiate sotto la pioggia e corse in motorino. In entrambi i casi, i capelli divenivano linguaggio non verbale, un modo per negoziare identità tra punk, indie e rituali di gruppo ancora privi di hashtag.

Antropologicamente, studiare l’uso di “bulbo” significa ricostruire come una generazione pre-social network avesse trovato nella cura (o nella trascuratezza) della propria acconciatura un potente strumento di narrazione: ogni pizzicata di gel, ogni ciuffo ribelle, ogni spettinatura involontaria era un atto comunicativo che rafforzava legami e definiva confini di sottocultura. Così, dietro un sorriso sarcastico e un commento sul “gran bulbo”, si nascondeva un tessuto culturale in cui estetica, comunità e auto-rappresentazione si intrecciavano indissolubilmente.

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