Oh cinno!

Oh cinno!

“Cinno” non era soltanto un appellativo affettuoso per indicare un ragazzino o un’adolescente tra i cinque e i diciassette anni: era un modo per segnare il confine tra infanzia e qualcosa di più consapevole, un riconoscimento di ruolo nella trama sociale della Bologna anni Novanta. Chiamare qualcuno “cinno” evocava la sua presenza vivace nei cortili, nei bar di periferia o davanti alle scuole, e insieme la sua potenziale crescita, quel passaggio dallo “strumento” familiare al protagonista delle proprie avventure. La variante spregiativa “cinnazzo” testimonia quanto il rispetto per l’età fosse bilanciato da un’ironia capace di smontare ogni presunzione, mentre la forma femminile – “cinna” – assumeva una sfumatura più soave, quasi poetica, come se per le ragazze la soglia tra bambino e donna avesse richiesto un tratto di delicatezza.

Nel suo uso più concreto, “cinno” alludeva anche al garzone di bottega, figura centrale nell’economia quotidiana: giovane apprendista al banco del droghiere o sotto il banco del calzolaio, il cinno era depositario di saperi tradizionali e memoria artigiana. In questo senso, il termine racchiudeva sia la vitalità giovanile sia l’eredità del lavoro manuale, rappresentando un legame tra generazioni che si ritrovavano tra scaffali e attrezzi, scambiandosi consigli con la complicità di chi trasmette il mestiere.

Antropologicamente, “cinno” racconta di come una collettività urbana sapesse riconoscere i suoi membri più giovani e assegnare loro un valore: non soltanto destinatari di cure, ma protagonisti di dialoghi e contrattazioni quotidiane, impegnati a imparare regole non scritte. Studiando oggi l’uso di questa parola, ricostruiamo una Bologna che si fonda sui rapporti intergenerazionali, dove il linguaggio diventa vettore di identità e di responsabilità condivisa.

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