“Ferro” nel gergo bolognese degli anni ’90 non era solo un veicolo: indicava qualsiasi macchina o moto di grande potenza e fascino, un simbolo di ingegneria meccanica capace di far girare gli sguardi e accendere le invidie di chi lo vedeva passare . Parlare di un “gran ferro” significava rivendicare non soltanto prestazioni elevate, ma un vero e proprio status symbol: l’esclamazione “Anche a me piacerebbe andare in giro con un ferro del genere!” racchiudeva un desiderio di libertà e d’avventura su quattro (o due) ruote .
Possedere un ferro era segno di “valore”: era l’oggetto attraverso cui misurare il proprio successo sociale e la propria autonomia economica, e al tempo stesso poteva tradire il privilegio di chi, da “figlio di papà”, poteva permettersi un bolide senza sacrifici . Nelle piazze e nei parcheggi sotto le Due Torri, i giovani si ritrovavano intorno ai motori rombanti per scambiarsi complimenti o frecciatine, commentando anche la “pilla” – i cavalli vapore – e stabilendo gerarchie di prestigio in base alla cilindrata e all’estetica del mezzo .
Dal punto di vista antropologico, il ferro diventava così un vero e proprio dispositivo di auto-rappresentazione: la scelta del modello, la cura dei dettagli cromati e l’abitudine a sfoggiarlo in più giorni di fila trasformavano l’oggetto in estensione del sé, raccontando aspirazioni personali e appartenenze di gruppo. Studiare oggi l’uso di “ferro” significa esplorare un linguaggio non verbale in cui la potenza meccanica diventa grammatica di identità, un rito urbano fatto di accelerazioni, scie di odore di benzina e sguardi di approvazione che cementavano legami tra coetanei in cerca di un proprio spazio nel tessuto cittadino.