“Telaio” nel gergo bolognese degli anni ’90 non era mero complimento, ma descriveva la struttura fisica di una persona come un’opera d’ingegneria estetica: quando un gruppo di amici commentava al passaggio di una ragazza “Leilà c’ha veramente un gran telaio!”, non si limitava a lodare curve o proporzioni, ma riconosceva l’armonia di un corpo forgiato dalla natura.
In quell’uso “telaio” assumeva valore culturale: evocava un modello di bellezza plasmato da posture, passi e gestualità tipiche delle giovani bolognesi, dove la fisicità diventava linguaggio non verbale di femminilità e seduzione. L’accento cadeva sul corpo come veicolo di identità collettiva—la capacità di “portare” un abito o di muoversi sotto le Due Torri con naturalezza costituiva parte integrante del tessuto urbano .
Antropologicamente, studiare il “telaio” significa comprendere come una generazione abbia trasformato la propria corporeità in risorsa sociale: il riconoscimento del “gran telaio” diventava rito di transizione, un passaggio dal privato allo spazio pubblico dove il corpo, come un monumento, veniva ammirato e desiderato. Così, dietro un commento spensierato si intravedeva la negoziazione di ruoli di genere, aspettative estetiche e pratiche di sguardo, tracciando la mappa di un’immaginaria galleria urbana fatta di movimenti, sguardi e relazioni.