Non fare il tuo numero!

Non fare il tuo numero!

«Non fare il tuo numero!» era il richiamo che bolognesi di ogni generazione si sentivano piovere addosso non appena iniziavano a scaldare i motori dell’esibizionismo. Bastava che un bambino alzasse troppo la voce davanti ai parenti perché la mamma–zdoura lo gelasse con quella formula; crescendo, la stessa locuzione tornava fra amici: «Oh, non farai mica di nuovo il tuo numero?!» per stroncare sul nascere gesti plateali, battute troppo gridate o racconti autocelebrativi già sentiti.

Il “numero” rievocava l’idea del pezzo da circo: sempre uguale, prevedibile, costruito per attirare l’attenzione. Nel linguaggio quotidiano, dunque, non era tanto il contenuto a essere censurato, quanto la ripetizione di un copione che il gruppo ormai conosceva a memoria. «Fai pure, ma senza fare il tuo numero» diventava la postilla con cui si chiedeva misura: spazio pure all’entusiasmo, purché filtrato da un tono meno teatrale.

Antropologicamente, la locuzione funzionava da regolatore d’interazione: ribadiva che la convivialità richiede turni di parola bilanciati e sceneggiate dosate. Chi veniva fermato imparava a leggere il segnale di stop e a ri‐calibrare volume ed ego; chi lo pronunciava difendeva il diritto collettivo a non assistere all’ennesima replica dello stesso show. Così «non fare il tuo numero» restava, sotto l’ironia, una lezione di equilibrio: l’esuberanza è benvenuta, purché non cannibalizzi lo spazio degli altri.

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