oh ma campani o no?!

oh ma campani o no?!

“Campanare” era il verbo fulmineo con cui la Bologna anni Novanta chiedeva conferma di comprensione: «Allóra, hai campanato quello che ti ho detto o no?!?». Bastava il tono leggermente inarcato per far intendere al fidanzato distratto – o all’amico che fissava nel vuoto – che era tempo di svegliarsi. La domanda diretta «Campani o no?» scattava anche davanti a un errore banale: un modo rapido per richiamare l’attenzione senza scivolare nell’insulto.

La formula si declinava ovunque: al bar, tra compagni di corso, durante una lite di coppia. «Campani o no?» stoppava l’amico che fingeva di seguire, mentre un rassegnato «Mah, non ho campanato un tubo» confessava la mancata captazione. Il verbo ruotava attorno a quel momento esatto in cui la moneta cade — o rimane sospesa — nelle slot mentali di chi ascolta. La parola si coniugava con naturalezza: «ho campanato», «non ho campanato», sempre a marcare l’attimo in cui il messaggio passava (o si inceppava) fra mittente e destinatario.

Antropologicamente, “campanare” era lo strumento di revisione immediata delle dinamiche di gruppo: un termometro dell’attenzione che proteggeva il ritmo della conversazione, impedendo che la distrazione di uno rallentasse tutti. Chi riceveva il richiamo capiva di dover riallineare sguardo e mente; chi lo pronunciava tutelava la chiarezza collettiva. Così, dietro una domanda in apparenza brusca, si nascondeva la volontà condivisa di andare avanti compatti, senza lasciare nessuno – almeno per troppo tempo – fuori giri.

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