“Polleggio” nella Bologna degli anni Novanta non era semplicemente “stare tranquilli”, ma un’invocazione condivisa al rallentamento collettivo, un modo per stabilire un ritmo alternativo a quello frenetico della vita notturna. Dichiarare “stasera voglio stare in polleggio” significava rivendicare uno spazio di riposo e riflessione, un momento in cui il gruppo poteva fermarsi, riprendere fiato e rinsaldare legami lontano dal caos delle discoteche .
L’imperativo “Oh, stai polleggiato!” veniva lanciato come un deterrente contro l’urgenza o di forzare ingressi in locali troppo affollati: era un gesto linguistico che raffreddava gli entusiasmi, trasformando la parola in uno scudo protettivo contro l’eccesso. Anche la forma abbreviata “polleg” funzionava da rassicurazione sintetica, un segnale istantaneo di “tranquillo, prendila con calma” scambiato tra amici.
Antropologicamente, il “polleggio” rappresenta un rituale di pausa, un’arma di negoziazione del tempo sociale che segnava la linea di confine tra appartenenza e sovraccarico collettivo. In una generazione abituata a misurare il valore dell’esperienza nella velocità dell’azione, la pratica del polleggio introduceva uno spazio di resistenza, in cui l’atto di fermarsi era esso stesso atto di comunità: un modo per costruire identità condivise fondandole non solo sulle conquiste, ma anche sulla capacità di concedersi tregua e ascolto reciproco.