“Branda” – prestito dal lessico militare che indicava la brandina pieghevole di caserma – passò senza cambiare forma nello slang bolognese: «Regaz, vado in branda che domattina mi alzo presto» era la formula con cui ci si congedava a fine serata, un modo chiaro e rapido per dire che le chiacchiere sotto i portici potevano terminare.
L’espressione abitava ogni fase della vita di gruppo: nei corridoi universitari, dopo un concerto al Link o un after in via del Pratello, “andare in branda” sanciva l’ora dello stop. A farle da controcanto c’era “finire in branda con…”, allusione semi-seria che spostava il significato dal semplice dormire a ben più vivaci sottintesi, prova che un vocabolo nato tra letti di truppa poteva diventare anche cronaca delle avventure metropolitane.
Antropologicamente, la branda funzionava come soglia tra il dentro e il fuori della socialità: nominare il letto – anziché la stanchezza o l’orario – permetteva di chiudere la scena con leggerezza e complicità, ribadendo il bisogno di un rifugio personale dopo l’esposizione pubblica della notte bolognese. Il termine, con la sua eco militare, ricordava che anche la festa più rumorosa finisce sempre in un luogo privato e ordinato, dove ci si “rassetta” prima di ripartire il giorno dopo.